Reputazione e uso dei dati personali. Interviene l’Autorità garante della privacy. 

Il progetto per la misurazione del “rating reputazionale” viola le norme del Codice sulla protezione dei dati personali e incide negativamente sulla dignità delle persone. Il caso “Mevaluate”. 

Da un po’ di tempo non sentivo più parlare di “Mevaluate“, dopo l’intensa campagna pubblicitaria e l’inondazione di email durante lo scorso anno, e mi chiedevo che cosa avesse potuto fermare gli altisonanti avvisi sui numerosi convegni di cui tale società si faceva promotrice per reclutare nuovi clienti. Per quanto non fosse mai limpida l’informazione, si capiva che venivano reclutati, quali potenziali clienti, professionisti e imprese e che si trattava di una banca informatica di dati.

A parte i costi per l’adesione, ciò che lasciava perplesso era la pretesa di misurazione della reputazione e l’assegnazione di un “rating reputazionale“. Io mi sono sempre chiesto quale fosse la mia reputazione, in effetti, sul Web, sia come professionista sia come promotore  culturale, tra plausi e dissensi, tra onori e oneri, tra entusiasmi (dei compagni di libero pensiero) e risentimenti (dei non liberi  e depensanti), tra le esaltazioni (degli intellettuali del dissenso) e i deprezzamenti (degli intellettuali conformisti e filoclericali), che la mia persona attirava e nello stesso tempo provocava.

Del resto ero consapevole che  le persone libere ed eccentriche, specie se civilmente impegnate per la salute sia mentale che ambientale, sono considerate un pericolo per l’ordine costituito e per il pensiero unico al servizio del potere. Non avevo idea allora di quale mia reputazione fosse traccia nel loro “algoritmo reputazionale” e nei loro dati raccolti, di cui il Web era pieno, ma ero certo  che i segni  di libero pensiero e del mio impegno civile e di promotore culturale con il mio Candide C.C. erano visibili e sotto gli occhi di tutti.

Non c’era però molto da fidarsi di coloro che dovevano valutare e assegnare un “rating reputazionale” alle persone in campo economico e professionale… perché mi sembravano palesemente gravitare in quell’area di perbenismo e conformismo del potere economico costituito  che io avevo sempre criticato quando non  deriso per svegliare la cittadinanza libera. Ma anche al di là del caso personale, quali garanzie di obiettività di valutazione?

Senza contare poi, alla lettura di certi nomi e di certe insegne di sponsor, che si trattava dello stesso filone perbenista e di “pensiero” alla base prima del mio allontanamento da una potente società assistita per la quale il mio illustre genitore aveva dato il sangue e poi la vita, e alla quale ero legato da un contratto di consulenza decennale, e da ultimo alla cancellazione del mio nome dalla redazione di una rivista che avevo visto sorgere fin da quando era un mero portale di informazione giuridica (motivazione datami via email dal fondatore, ottimo avvocato e sempre ammirevole anche nel suo attuale ruolo di star televisiva delle consulenze: è entrato un socio occulto e io dovevo comprendere, quindi qualcuno di economicamente potente al quale io evidentemente sto sui coglioni).

Ma quale algoritmo? Se si lasciasse veramente parlare il Web io ne sarei uscito bene e con un ottimo rating… il fatto è che la cosa non mi convinceva affatto. Il mio intuito mi diceva che non potevano esserci garanzie di veridicità e completezza su cui fondare alcuna valutazione, con il rischio di creare profili inesatti e non rispondenti alla identità sociale, reale e digitale, delle persone censite e profilate.

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Reputazione e uso dei dati personali: articolo di Giovanni Bonomo

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